Merenda allo stadio
Nessuna merenda, per me, ha mai avuto il sapore della merenda allo stadio.
Si può raccontare come se fosse una fiaba.
C’era una volta, nemmeno troppo tempo fa, anche se sembrano mille anni, stadi dove anche una bambina poteva entrare, pagando il biglietto all’ingresso senza bisogno di registrarsi, presentare documenti e così via.
Non che a quell’epoca non succedessero negli stadi cose riprovevoli, addirittura tragedie, ma questo è il MIO ricordo, e solo a ripensarci sento una colata di miele sul cuore.
C’era una volta una bambina che andava allo stadio con il papà, e a volte, ma non è sicura che sia un vero ricordo, o invece qualcosa che le è stato raccontato poi, anche con il nonno.
Ci andava in pullman, e si sedeva vicino a un pari età, e su quel pullman avrebbero passato anni, e sarebbero cresciuti tutti e due, ma nel ricordo sono piccoli, abbastanza da sedersi vicino ai ragazzi più grandi e bersi come oro colato ricordi di questa e quell’altra partita, e quel gol e quel fuorigioco e quel contropiede, con gli occhi sgranati dei loro otto anni.
Andava allo stadio, questa bambina, con il suo papà, e gli amici del papà, che ora si commuove solo a scriverne, di quello gentile e sorridente ma di cui non si poteva pronunciare il nome di battesimo pena sconfitte squalifiche e menischi, e quell’altro che sempre, in qualunque stagione, era bardato del colore della squadra dai calzini su fino alla sciarpa
Con tutti loro si mangiava la merenda del dopo partita.
C’erano sacchi di panini freschi, profumati di buono, procurati da due compagni di pullman che avevano una panetteria, e c’era chi la sera prima riceveva il compito di imbottirli.
Si mettevano nel vano portabagagli del pullman, e quando si usciva dallo stadio, saltellanti o depressi, erano lì ad aspettarci. Si mangiavano rigorosamente fuori dal pullman, se no l’autista chi lo sente, e lo stesso la merendina e il succo di frutta infilati nello zaino, quasi che la partita dovessimo giocarla noi, e ne uscivamo stanchi e affamati.
Si faceva merenda in pomeriggi di sole quasi estivo, ricavando un picnic da quello scorcio di domenica pomeriggio, con ancora il verde del campo negli occhi e la vibrazione, quella specialissima vibrazione che fa il cemento dello stadio quanto tutta la curva canta insieme, sotto i piedi.
Si faceva merenda in mezzo alla nebbia gelata, con le dita intirizzite, mentre “i grandi” bevevano un liquore al caffè introvabile se non negli stadi, mentre dalle bancarelle illuminate viene odore di caldo e cibi fritti, ma non buoni come il panino, o la merendina portata nello zaino, non con lo stesso sapore di compagnia, di gruppo, di “faccio parte del mondo del mio papà”.
Si mangiavano, quelle merende, in un posto e in un mondo che ho perduto ma che ho conservato uguale nel cuore, e nessuna merenda, in nessun altro posto, ha mai avuto lo stesso sapore.