Merendine su e giù per l’Italia

merendine italiane su e giù per l'italia

“Nonna, pane olio e sale!” Federico è appena tornato da scuola e mi guarda con occhi imploranti, occhi di fame vera. “Guarda, Fede che c’è anche il panino fresco col prosciutto, o la brioche, se vuoi!”. La risposta è perentoria: “No, pane, olio e sale: è una cosa da imparare, lo diceva anche il nonno Gregorio!”.

Il nonno Gregorio era mio padre. Se fosse vivo sarebbe un bisnonno ancora relativamente giovane, un po’ più di ottant’anni, visto che Valentina ha ormai dieci anni e Federico sette. Inevitabilmente, mentre faccio abbrustolire il pane, torno con la memoria a quel papà giovane, dai capelli neri ondulati e dagli occhi verdi che, quando ero piccina, mi sembrava, ed era, bellissimo. Era un padre del sud, un papà chioccia a cui piaceva prendersi cura di noi bambini. E farci la merenda. Mia madre, lombarda, si scandalizzava per le friselle bagnate nell’acqua e condite con olio, sale e quando capitava anche col pomodoro. O per le bruschette che ci somministrava appena usciti da scuola. Ma lui abbozzava appena e non rinunciava alle sane abitudini del suo paese, arroccato sulle colline riarse della Ciociaria. La mamma scuoteva la testa e lo lasciava fare. A quei tempi era già un fatto inusuale che un padre si occupasse dei suoi bambini e dei loro bisogni materiali.

Federico, intanto, raccoglie col dito il sale che è rimasto sul piatto e io sorrido. “Sei proprio come una capretta, Fede, lascia lì che ti fa male, e va a lavarti le mani!”. Mi piace, però, quando mi accorgo che qualcosa della mia famiglia di origine è arrivato sino a loro. Che sia un’ attitudine particolare, un talento, un gusto, le parole del lessico familiare del lago di Garda, da cui io provengo, dell’Altipiano di Lavarone, da dove arriva mio marito, il nonno Fausto, dal Lazio di mio padre, dal Friuli del mio nonno materno. Siamo una famiglia mescolata e ho sempre pensato che questa fosse una ricchezza di cui anche i miei nipotini dovevano essere consapevoli. Lo siamo fortemente anche dal punto di vista culinario, in un intreccio di ricette, sapori, aromi, che arrivano da lontano e che fanno spesso a gara per prendere il sopravvento. Quando ero piccola, a Tremosine, vivevo con due anziane prozie, che erano le proprietarie della vecchia locanda lasciata in eredità alla mia mamma. La casa era grande, ospitale, piena di luoghi segreti e immersa in una natura rigogliosa: canneti, alberi secolari, viali di siepi ordinate e giardini fioriti di rose e dalie nella bella stagione. C’era anche molta frutta, saporita e gustosa, in quasi tutte le stagioni; noci, cachi, nespole, amarene, mele, pere, uva, fichi, ribes. Frutti che noi cinque, tra fratelli e sorelle, coglievamo direttamente dall’albero o dai cespugli e gustavamo in tutta pace seduti su un tronco rugoso, nascosti nel canneto o sulle panchine di pietra sotto i tigli profumati. I cachi, d’inverno, stavano al fresco insieme all’altra frutta sull’impiantito di un salone che tenevamo chiuso e non veniva riscaldato. Gli facevano compagnia i gerani che si assopivano nell’attesa di riprendere luce e vigore all’avvento della bella stagione. Quella del salone era una riserva a cui si poteva attingere appena tornati da scuola. La grande stanza elegante, dalle enormi vetrate vista lago, si illuminava di quei colori accesi che ricordavano l’autunno appena finito. A marzo però, tutte le porte della grande casa come per incanto si aprivano e l’aria della primavera entrava, insieme alla luce abbacinante e al garrire delle rondini. Era un vento vorticoso che spazzava via le ragnatele, le braci spente nel caminetto, le borse con l’acqua calda, i geloni e i racconti di fantasmi che popolavano le lunghe sere invernali. Quei frutti meravigliosi di cui, se mi concentro, sento ancora il sapore, hanno costituito per anni la nostra riserva di vitamine e energia, quando gli adulti, presi dalle loro faccende, non si occupavano di noi, che ci procuravamo da soli il cibo quotidiano e anche qualche bel mal di pancia quando si esagerava con le scorpacciate. Ma, di solito, per non buscarle, si stava zitti e si andava a letto con qualche scusa. I bambini degli anni “cinquanta” frignavano poco e molto prosaicamente imparavano presto ad occuparsi delle proprie esistenze e dei relativi bisogni.

Quando finalmente arrivai in seconda media, la zia Ida decise che avrei dovuto prendere parte al rito del caffè, ancorché corretto con…l’ uovo sbattuto. Probabilmente le facevo pena con quelle alzatacce mattutine per salire sulla piccola corriera che sulla strada stretta e piena di curve, a strapiombo sul lago, mi avrebbe portato a Campione. Lì , in Gardesana, sotto la roccia incombente, aspettavo nel vento che il pullman rosso della SIA, che veniva da Brescia, mi portasse nella bella cittadina di Riva del Garda. Alla mia scuola. Dunque, questo viaggio avventuroso avrebbe giustificato la trasgressione del caffè, bevanda per adulti. La lunga notte invernale, che sembrava non finire più e si stemperava in un’alba livida e fredda, sorprendeva la zia Ida, ultraottantenne, già alzata, lavata e vestita: pronta prendersi cura di noi. Il primo lavoro era quello di accendere il fuoco, con movimenti sicuri, la crocchia candida dei suoi capelli folti avvolta sulla nuca in tante treccine. Le mani grandi e laboriose, intente alle faccende, spiccavano contro il nero del focolare. Era allora che l’aroma del caffè invadeva l’aria, si sbattevano le uova, si scaldava il latte e tutti stavano zitti e buoni. Con quella merenda/colazione così energetica e speciale potevo correre fuori e affrontare il mondo.

La merenda della mia mamma era, in fondo, una variante lombarda di quella del papà. E altrettanto prelibata. La mamma faceva scaldare un po’ d’acqua, la versava sul pane, ci metteva del burro fuso e abbondante parmigiano. Da leccarsi i baffi! Così siamo diventati grandi, non trascurando qualche bel panino col salame, con la formaggella di Tremosine o con la coppa. Niente male…

Ma una merenda, su tutte, fu destinata ad entrare nella storia e a diventare memorabile: la finta polenta gialla di Roccasecca!

Tutti noi bambini, quando compimmo sei anni, fummo spediti da papà Gregorio al suo paese in Ciociaria, dove vivevano serenamente le sue mitiche e pacioccone sorelle: tutte zitelle, tutte amorevoli e ottime cuoche. Dovevamo appropriarci dei suoi sapori, del suo dialetto, dei bei paesaggi. Dell’affetto delle sue sorelle.

Accadde una mattina di giugno, l’aria gentile e fresca. Avevo sei anni. Salutai tutti cercando di non piangere e, dopo un piacevole viaggio in Gardesana sull’auto dell’Orazio, salii con papà sul treno alla stazione di Desenzano. Non capii subito perché io avessi una valigia e lui solo una piccola borsa. Papà se ne partì da Roccasecca una mattina presto, mentre dormivo e io, al risveglio, non trovandolo mi disperai. Era tornato a casa senza di me. La zia Elena mi prese sulle ginocchia e mi disse che era giusto così, che con loro sarei stata bene e che, al mio ritorno, oltre alla sorellina che già avevo, avrei trovato un fratellino nuovo. E poi il mio papà mi aveva lasciato un bel gruzzoletto, ben mille e settecento lire! Era una discreta somma per quei tempi. Piansi tutta la mattina e quando non ce la feci più mi addormentai sfinita. Nei giorni che seguirono il problema più grande fu il cibo: le meravigliose pastasciutte delle zie e le mille prelibatezze che mi cucinavano suscitavano per lo più il mio disgusto. Ero infatti una signorina un po’ viziata che si nutriva di riso in bianco e patate lesse. Lentamente, la fame prese il sopravvento e cominciai ad allargare la gamma dei sapori, ad apprezzare quei cibi speciali e genuini, cucinati con cura. Un giorno però piantai un capriccio di quelli coi fiocchi: volevo la polenta, quella gialla, grande, bella e fumante che mangiavo a casa mia. Un sonnellino consolatore, nell’afa del pomeriggio, fu la soluzione a quel dolore che sembrava insopportabile e che aveva un solo nome: nostalgia. Al mio risveglio era ora di merenda. Fu allora che le zie sfoderarono il loro asso nella manica. Sul tavolo della cucina, tra le tende svolazzanti, il frinire delle cicale e il miagolio dei numerosi gatti, comparve una “cosa” gialla, deposta fieramente su un elegante piatto di portata di porcellana  bianca a fiorellini: assomigliava vagamente a una polenta. Ma come, pensai, la polenta a merenda? Balzai con la forchetta sul piattino che le zia mi avevano messo davanti e inghiottii, con aria di rivalsa, il primo boccone. Ma la gioia si trasformo ben presto in un pianto disperato: quella polenta era dolce, dolce, dolcissima! L’esperimento fallì miseramente e a sera vennero le vicine a mangiare quella prelibatezza: per tutti ma non per me. L’estate finì, tornai a casa, sul mio lago. Ero più grande, più matura e meno viziata, pronta per il nuovo fratellino che mi aspettava. Negli anni a venire non dimenticai mai l’amorevolezza delle zie, così care, lo sforzo che avevano fatto per farmi sentire a mio agio. E le loro meravigliose merende…italiane: che cuoche fantastiche erano!

 

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